Gli Spike’s Video Game Awards sono un evento unico correlato al mondo dell’intrattenimento videoludico. Rappresentano la voce di un mercato e di un comparto produttivo che rivendica una propria legittimazione fra i pilastri dell’industria dell’intrattenimento. I videogiochi – sembrano suggerirci la portata e il tenore dell’evento – non sono più roba da poco, e meritano il posto che gli compete. Qual è questo posto? A giudicare dal format adottato, non troppo lontano né dal cinema né dalla musica; con la sola, fondamentale differenza che i videogames non sono ancora popolari quanto gli altri due settori sopracitati. I VGA sono un evento giovane – quest’anno ha celebrato il decennale, traguardo non da poco e segno di un interesse crescente verso il fenomeno – e in quanto tale soffre di problemi legati alla gioventù. Lo show, difatti, non è e non sarà mai quel nirvana di videorgasmo digitale che tutti i nerd sognano, quanto piuttosto un evento sì correlato ai videogames, ma proposto con meccaniche e metodiche estranee al settore.
Non si può infatti dire che i VGA godano di fama cristallina, tanto fra gli appassionati, quanto fra gli addetti ai lavori. La poca enfasi e poca rilevanza data ai giochi in sé e, per contro, l’eccessiva attenzione dedicata agli ospiti, spesso e volentieri del tutto estranei al mondo dei videogiochi, hanno determinato un calo nella considerazione dello show in quanto tale, e anche nei verdetti che da esso scaturiscono.
Scorrendo l’albo d’onore della manifestazione, ci si rende subito conto che i titoli premiati di anno in anno sono esattamente quelli che ci si aspetterebbe. Grandi produzioni. Grandi budget. Grandi campagne promozionali. Titoli da scaffale e da copertina. Sulla base di tali considerazioni, nella mente dei più si è legittimamente fatto strada il sospetto che ad essere premiata non fosse l’effettiva qualità o gli effettivi meriti di un prodotto, quanto piuttosto la grandezza della major alle spalle, i volumi di vendita e l’ammontare degli introiti generati. Se me lo avessero chiesto pochi giorni fa, anche io mi sarei schierato con convinzione al fianco di coloro i quali considerano il VGA poco più che la parodia di uno show di MTV.
Pochi giorni fa. Oggi, però, qualcosa è cambiato.
Il Re è morto
I verdetti del VGA 2012, tenutosi il 7 Dicembre a Culver City in California, sono stati a dir poco inaspettati. Partiamo da lontano, da cose semplici: per la prima volta, un gioco della saga di Call of Duty non vince in alcuna categoria (eccezion fatta per COD 3 nel 2006, l’unico fra i titoli principali a non essere mai stato rilasciato per PC). Può sembrare poco, e in effetti lo è, ma è comunque un segnale per tutti quelli che possono sospettare di una giuria pigra – giuria composta da giornalisti provenienti da varie testate specializzate nel settore. Call of Duty: Black Ops 2 non è l’unica vittima illustre. Anche un altro dei giochi più anticipati, attesi e pubblicizzati dell’ultimo periodo non è riuscito ad aggiudicarsi neppure una misera categoria minore. Mi riferisco, ovviamente, ad Assassin’s Creed III, tanto osannato per essere il migliore della saga, che ha ceduto il titolo di Miglior Action Adventure a Dishonored degli Arkane Studios.
C’è aria di cambiamento. Una leggera brezza che con costanza e tenacia è riuscita a far girare la banderuola dove mai finora aveva puntato. Molti, quasi tutti, se n’erano accorti da tempo. Ma questo 7 Dicembre, a quanto pare, finalmente, se n’è accorta anche l’industry. Due delle categorie più ambite, Miglior gioco dell’anno e Miglior gioco per Play Station 3, sono state assegnate a giochi che definire outsider è poco. Il miglior gioco dell’anno è risultato essere The Walking Dead: The Game, adventure scaricabile a episodi sviluppato e distribuito da Telltale Games, cui va anche il premio come Miglior Studio – non certo un colosso. Il premio come miglior gioco per PS3 va invece a Journey, esclusiva PS3 dello sviluppatore indipendente Thatgamecompany. Sempre un adventure. Sempre scaricabile. Della durata di appena 3 ore.
I suddetti giochi non si sono limitati ad aggiudicarsi i premi più ambiti, ma hanno fatto man bassa di categorie minori, con altri tre premi per The Walking Dead (Miglior Adattamento, Miglior Performance Femminile per Melissa Hutchison nel ruolo di Clementine e Miglior Gioco Scaricabile) e due per Journey (Miglior Gioco Indipendente, Miglior Colonna Sonora Originale). Quello che si potrebbe definire un plebiscito.
Piccoli sviluppatori crescono
La portata di queste scelte è amplificata se si considera quanto sostenuto dall’autorevole voce di Shane Satterfield, giurato ai VGA 2012 e capo redattore di GameTrailers.com – ente produttore dello show e affiliato di Spike TV. Pochi giorni prima l’evento, in un intervista rilasciata a GTTV, quando gli viene chiesto cosa pensi riguardo le nomination a gioco dell’anno, Satterfield sostiene che “Quando compari un gioco che richiede solo poche ore per essere completato, con uno che richiede 20, 30, 40 ore, o se c’è il multiplayer si può arrivare a centinaia di ore, e guardi al lavoro che c’è dietro questi giochi per renderli così longevi per quel lasso di tempo, è quasi ingiusto, per me, includere questi giochi sviluppati da team poco numerosi che catturano il tuo interesse per un periodo di tempo più breve.” Non penso certo che Satterfield intendesse denigrare il lavoro degli sviluppatori, infatti nella stessa intervista dice di aver giocato i titoli in questione e di averli graditi particolarmente, soprattutto Journey. Sarebbe stato difficile, però, immaginare quello che poi è effettivamente accaduto.
In ogni caso, le scelte, e i premi, rimangono.
Scelte opinabili, certo. Ad ogni modo, scelte coraggiose. Quello che la giuria ha fatto è stato ridefinire il significato di un termine. Se si può dire che, fino ad oggi, la parola migliore, come in “miglior gioco”, ha sempre e irrimediabilmente portato con sé il peso del denaro e l’ombra delle spalle larghe dei publisher più noti, è certamente da apprezzare la scelta da parte di una giuria specializzata – che poi è composta da quegli stessi uomini che, volenti o nolenti, pilotano le vendite dei videogiochi – di guardare altrove, per una volta. Di uscire dagli schemi. Di valutare un prodotto non solo in base al denaro investitoci, alla tecnica all’avanguardia, alle ore di gameplay che assicura e agli introiti che genera, ma anche da componenti più sottili e, per certi versi, umane, come l’impatto emotivo che titoli quali The Walking Dead e Journey sanno assicurare. La parola migliore allora assume un significato nuovo, che forse, ma solo forse, potrebbe voler dire che quel particolare prodotto di cui si parla ha davvero qualcosa in più, in grado di distinguerlo dalla massa e farlo emergere come unico, come il migliore. Che sia stato uno strappo alla regola o l’avvio di una prassi, solo il tempo potrà dirlo.
Non mi esprimo sulla bontà delle scelte, ma plaudo all’onestà intellettuale di un industria, quella dell’informazione videoludica, che per una volta ha dimostrato di saper pensare di testa propria, e di poter sorprendere. Non so se questo è un piccolo passo verso un qualcosa di nuovo, ma sicuramente è una vittoria (o forse una rivincita) della passione nel fare le cose. La vittoria di una filosofia del fare giochi, dove al centro dell’esperienza si pone l’accento più sulle emozioni che il gioco suscita, piuttosto che sui sensi che stimola. Se l’industria dei videogames vuole crescere e fare il salto di qualità, per scrollarsi al fine di dosso l’etichetta di “roba da ragazzi”, è questa la via da battere.
Nessuno disprezza i grandi titoli, quasi sempre si tratta di giochi che meritano l’attenzione che ruota attorno ad essi. C’è tutta una porzione di mercato, però, che quasi scompare al cospetto di questi mostri scari del marketing. Nessun problema, fa tutto parte del gioco del mercato, ma è proprio qui che deve intervenire una critica onesta, a dare il giusto riconoscimento anche a chi non dispone di grandi mezzi.
Come ampiamente dimostrato nel cinema, la produzione indipendente si dimostra sempre un valore aggiunto, in grado di dare spazio a contenuti e tematiche altrimenti ignorate. Una risorsa insomma, da incentivare e sostenere.
Secondo me i titoli cosiddetti “mainstream” non sono da disprezzare. Ok, magari sono molto simili tra di loro e hanno sicuramente molti difetti, però bisogna sicuramente apprezzare i loro numerosi ed evidenti pregi.
Comunque, un po’ come dice l’autore nel suo articolo, anche secondo me i premi di questo VGA sono molto “simbolici”. Sono serviti più ad incentivare che a premiare, almeno per me
Un bellissimo articolo.
Sono ormai un paio d’anni che il mondo indie è fiorito e si espande dolcemente (nel frattempo la gente continua a parlare dei soliti COD, Halo, Assassin’s creed, Uncharted ecc.).
Pensa che, ad oggi, i miei titoli desiderati sono, per la maggior parte, indie.
Giocare ad un gioco indipendente ti fa sentire come giocare ad un vero videogioco.
Inoltre sono, spesso, titoli molto originali.
Che bello il mondo indie ^^