Visto che siamo in Italia, una riflessione razionale basata sulla realtà è fuori discussione...

Da sempre i nostri (e non solo i nostri) media generalisti si sono occasionalmente spinti nel mondo dei videogiochi, e spesso lo hanno fatto per dipingerli come riprovevoli propagatori di violenza.

Ricordo – ed è bene ricordarlo – che all’epoca dell’uscita di Grand Theft Auto IV ben tre telegiornali italiani si scagliarono contro il titolo, tutti quanti dimostrando di non avere veramente idea di cosa stessero parlando (per un approfondimento, vi rimando ad una pagina che ho scritto alcuni anni fa su un mio blog privato). Anche se non credo esistano più video a dimostrarlo (perché la RAI stessa li ha fatti rimuovere da YouTube), il TG1 riuscì persino ad affermare che la strage di Utoya era stata istigata in Brieivick da Call of Duty e World of Warcraft (descritto come “boschi surreali” in cui il protagonista “è chiamato a sterminare ogni forma di vita”).

 

Negli ultimi due mesi abbiamo assistito ad una nuova ondata di sempre maggiore focalizzazione di vari media sui “videogiochi violenti”, e più precisamente in merito al fatto che in Italia non ci sia nessuna normativa di legge vincolante che regolamenti la vendita ai minori di prodotti classificati per adulti. Ma questa volta non sono i media a tirare il carro, bensì un politico: la deputata Ilaria Capua, di Scelta civica.

Si è cominciato con il post di una psichiatra su un blog de Il Corriere della Sera, secondo cui Grand Theft Auto V sarebbe “un’istigazione alla violenza anche sessuale, al crimine e al femminicidio”; proprio la Capua ha quindi scritto una lettera al presidente del consiglio Matteo Renzi (come riporta Multiplayer.it), e vari programmi televisivi hanno iniziato a farle eco: Striscia la notizia ha realizzato un servizio per mostrare come qualunque ragazzino può comprare qualsiasi videogioco consigliato ai maggiorenni entrando in un negozio e chiedendolo (e scoprendo nel contempo anche l’acqua calda, visto che nessuna legge o norma lo vieta neppure in teoria); ospite ad Uno Mattina la scrittrice Dacia Mariani ha parlato di “un gioco recente per bambini piccoli in cui chi ne mette più sotto con la macchina vince”, si immagina riferendosi sempre a GTA V (e dimostrando il livello di comprensione raggiunto a riguardo); a Geo&Geo la stessa Ilaria Capua ha ribadito le proprie preoccupazioni e la necessità di fare qualcosa, mentre tale Luigi Galimberti “dimostrava” come videogiochi e comportamenti violenti siano chiaramente collegati – il che è abbastanza incredibile, visto che nessuno studio vero pubblicato fino ad oggi ha prodotto risultati compatibili.

 

La settimana scorsa, per finire, la dottoressa Angela Nava Mambretti, esponente dell’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle COMunicazioni), ha tenuto una vera e propria audizione di mezz’ora davanti alla Commissione Cultura del Parlamento. Durante il suo discorso, che trovate in versione integrale qui, la dottoressa ha non solo dimostrato di non possedere le più basilari conoscenze sugli organi vigenti di valutazione dei videogiochi, producendo una serie imbarazzante di inesattezze e vere e proprie castronerie sul tema che in teoria era chiamata a chiarire (GamesVillage ha pubblicato un ottimo articolo a riguardo), ma ha anche avanzato un’idea a dir poco preoccupante:

Una proposta di legge sull’autocertificazione. Il produttore dichiara per quale fascia d’età – ci può essere un comitato, che valuta anche ex post per quali fasce, e ci possono essere delle sanzioni. Credo che sia una strada che il mondo anglosassone ci indica, una delle vie d’uscita da una situazione d’empasse a sbranarci sul “caso”.

 

 

Vediamo di fare chiarezza. I dubbi che stanno venendo sollevati da giornali specializzati e personalità legate al mondo videoludico in risposta a questa vicenda non riguardano (almeno nella stragrande maggioranza dei casi) l’idea di imporre dei vincoli di età legati all’acquisto in quanto tale.

In diversi paesi d’Europa il PEGI ha già ora valore legale; ad esempio, in Inghilterra un negozio non può vendere un titolo classificato 18+ a qualcuno che non dimostra di avere 18 anni. Sì, ci sono modi abbastanza ovvi per aggirare il paletto (come mandare un amico maggiorenne a fare gli acquisti al posto proprio, o semplicemente trovare un negoziante che se ne frega e viola la legge), ma nel peggiore dei casi il risultato sarebbe tornare esattamente alla situazione attuale, e allo stesso tempo si incentiverebbero davvero i genitori ad interessarsi un minimo a cosa acquistano i figli.

Se lo scopo è quindi sensibilizzare le famiglie, il metodo più immediato, pratico e attuabile sembrerebbe appunto riconoscere alla classificazione del PEGI valore legale, inserendo forzatamente i genitori nel meccanismo di acquisto di videogiochi per i figli e mettendoci più o meno in pari col resto d’Europa.

 

Ma non è decisamente questo che si sta suggerendo, e la chiave è tutta nell’inciso “ci può essere un comitato, che valuta anche ex post per quali fasce”.

L’idea, infatti, sembra quella di bollare il PEGI come insufficiente ed inefficace (quello che la dottoressa Nava ha maldestramente cercato di fare davanti alla Commissione Cultura, inventandosi di sana pianta che l’età indicata è in rapporto alla difficoltà e non ai contenuti del gioco, quando il sito dello stesso PEGI afferma esplicitamente il contrario), scavalcarlo completamente e quindi creare un ulteriore organo di valutazione, tutto italiano, nominato ancora non si sa come e da chi (ma, questo è sicuro, pagato con le tasse di tutti).

Se tutto questo appare già palesemente ridondante e antieconomico di suo, i risvolti sull’industria videoludica vera e propria sarebbe anche peggiori. Non è chiaro, essendo per ora solo una vaga proposta, come dovrebbe funzionare questa valutazione aggiuntiva, ma in ogni caso genererebbe problemi tanto agli utenti quanto ai produttori.

Se il “secondo parere” fosse necessario prima di mettere in commercio un titolo significherebbe che, nel caso il suddetto organo se la prendesse comoda, l’uscita di un gioco potrebbe essere rimandata a data da destinarsi, o anche restare bloccata per sempre nella burocrazia. Imboccare questa strada ci metterebbe, di fatto, in una situazione sinistramente simile a quella della Cina e dei pochissimi paesi in cui il governo vuole apporre il proprio timbro di approvazione sui prodotti di intrattenimento prima che la popolazione abbia diritto di venderli ed acquistarli.

Nel caso in cui invece il giudizio di questa commissione fosse accessorio, ed essa intervenisse solo quando lo ritenesse opportuno (come sembrerebbe dalla dicitura “valutare ex post”), significherebbe che da un giorno all’altro un titolo prima venduto con una valutazione del PEGI potrebbe trovarsene assegnata un’altra dal nuovo ente, obbligando il ritiro di tutte le vecchie copie e la ristampa (ovviamente a spese del publisher, e, non si sa mai, dei clienti). Il che tra l’altro sarebbe, a mio modesto avviso, tutt’altro che in linea con l’obiettivo di “smettere di sbanarci sul caso”.

E non stiamo neanche prendendo in considerazione le possibilità, non completamente remote, che questa commissione riceva il potere esplicito di vietare totalmente la vendita di un particolare titolo, o non chieda un ulteriore obolo ai publisher per il “privilegio” di avere il proprio gioco valutato, costo che andrebbe chiaramente a scaricarsi sui clienti (se quest’ultima vi sembra folle, ricordo solo che ogni volta che acquistate un hard disk, una chiavetta USB, un telefono o un qualsiasi altro dispositivo di archiviazione digitale state pagando una tassa nascosta richiesta dalla SIAE volta a pareggiare il “danno” – dato per scontato – che tramite il suddetto dispositivo causerete agli artisti, di cui farete una copia delle opere sul suddetto supporto. E no, non è una battuta).

 

 

Non sto cercando di creare allarmismo: in teoria tutta questa vicenda potrebbe lentamente spegnersi e concludersi in un nulla di fatto. Ma potrebbe anche non succedere, e per questo ci tengo a fare tutto il possibile per chiarire al meglio fin da subito come stanno le cose e che conseguenze potrebbe avere ogni scelta.

Nelle prossime settimane seguiremo molto da vicino la vicenda (sicuramente non saremo i soli), e cercheremo di tenervi informati su eventuali sviluppi.

Lorenzo Forini
Sono nato a Bologna nel 1993, videogioco da sempre, e da sempre mi ha affascinato l'idea di andare oltre al solo giocare, di cercare di capire cosa c'è nascosto in ogni titolo dietro al sipario più immediato da cogliere. Se i videogiochi sono una forma d'arte, forse è il caso di iniziare a studiarli davvero come tali.

2 Responses to “L’AGCOM chiede un organo per regolamentare la vendita di videogiochi”

  1. […] a favore della presunta salvaguardia dei bambini. In Italia la questione praticamente non esiste (almeno non ancora), ma in vari paesi del mondo sono in vigore leggi per cui la vendita di un videogioco può essere […]

  2. […] a favore della presunta salvaguardia dei bambini. In Italia la questione praticamente non esiste (almeno non ancora), ma in vari paesi del mondo esistono leggi per cui la vendita di un videogioco può essere vietata […]

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