Benvenuti in questo speciale natalizio targato GameBack. Dal 1° al 24 dicembre, come se fosse una sorta di “calendario dell’avvento”, pubblicheremo ogni due giorni una puntata di questa piccola rubrica, in cui ogni redattore di GameBack, a turno, parlerà del “videogioco che gli ha cambiato la vita” e ha acceso in lui la passione per l’arte videoludica.
Vi ricordiamo, inoltre, di lasciare un commento inerente all’articolo, in modo da poter partecipare al contest natalizio che stiamo organizzando sulla nostra pagina Facebook e la nostra stanza su Ludomedia (le regole del contest si trovano qui).
All’epoca il mondo di un piccolo videogiocatore ruotava soprattutto intorno alla sala giochi, vuoi perché i PC ancora non erano diffusissimi, vuoi perché le console non tutti i genitori le regalavano (e, ahimé, i miei sono stati tra questi). Così, i pomeriggi di tedio venivano abbattuti a suon di gettoni che, puntualmente, non erano mai abbastanza. Si giocava a qualsiasi cosa da Outrun a Bubble Bobble a Final Fight, ma Street Fighter, Double Dragon, Mortal Kombat ed i picchiaduro in generale andavano per la maggiore. Poi qualche genitore si ammorbidiva (‘sta volta anche i miei) ed in casa spuntavano le Super Nintendo e le Sega Master System II, amicizie (e a volte anche parentele) che s’infrangevano sul controllo del gamepad per una partita ad Alex Kidd in Miracle World. Ma la svolta o meglio, la mia svolta videoludica, arrivò con il PC, le sigle 286, 386 e 486 si susseguivano, in un’alternanza caleidoscopica di giochi ereditati da cugini-di-amici-di-lontani-parenti. Karateka, Prince of Persia, Xenon 2, Pac-Man, Tetris giochi in cui l’immersione dovevi fartela in casa, più incentrati sull’abilità che non sulla narrazione. Finché un giorno una serie di floppy da 3½ pollici non finì per puro caso tra le mie fameliche grinfie di videogiocatore. Era The Secret of Monkey Island ed era in ritardo di almeno 3 anni dalla sua uscita ufficiale, poi fu solo LucasArts (più o meno, volevo rendere la cosa un po’ più enfatica).
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Le avventure grafiche erano alla loro massima espressione ed io avevo tanto da recuperare. Così cominciarono le peregrinazioni di ogni avventuriero, gli atavici quesiti che attanagliano l’animo umano, domande la cui risposta può cambiarti la vita, domande del tipo “come userò questo pollo di gomma con una carrucola in mezzo?”. Le notti di Mêlée Island e l’olezzo di grog dello Scumm Bar, lerci pirati da combattere a suon di sberleffi, le infinite contrattazioni con Stan al mercato delle navi usate, il malefico e non-morto LeChuck, testare i propri limiti, accettare una sfida, immergersi in un mondo magico, scoprire nuove cose, sbattere la testa sulla tastiera aspettando la fatidica scintilla che ti porta verso una possibile soluzione. E pensare che c’è ancora chi si chiede perché si chiama decima arte. Il videogioco è un percorso con una miriade di diramazioni, ognuna delle quali rappresenta una possibilità da sperimentare, un iperuranio di idee che possono collimare o divergere, attrarre o allontanare, un multiverso di emozioni da cui farsi estasiare. Ed è forse proprio questo il segreto che ho trovato in quei floppy da 3½ pollici, che la meraviglia della scoperta si può vedere anche dalla prospettiva più insolita, che la differenza è come un grande parco giochi da esplorare e che saper trattenere il fiato per 10 minuti non è un’abilità da prendere sottogamba.
Bellissima la saga Monkey Island. Il mio preferito è The Curse of Monkey Island che, anche senza un “certo” Ron Gilbert, mi ha regalato innumerevoli ore di gioco e di sano divertimento!
Inoltre, quel capitolo, lo adoravo anche a livello visivo: i suoi disegni erano a dir poco fantastici!!!