Recensire un titolo del calibro di The Last of Us (ultima fatica di Naughy Dog, creatori di Uncharted) a diversi mesi dall’uscita, quando i giudizi di massima sono già stati emessi da tempo, quando critica e pubblico hanno già detto la loro e il dibattito sul perché il gioco dovrebbe piacere – o non piacere – sembra essere quasi arrivato a un punto morto, è difficile. È difficile non farsi condizionare dalle troppe cose dette sull’argomento, ma soprattutto è difficile approcciarsi al gioco in maniera realmente neutrale. Chiunque incominci a giocare a The Last of Us, dopo tutto il parlare che lo ha accompagnato, lo fa carico di aspettative. Un capolavoro, è stato definito. Un abbaglio, sostengono i detrattori. Secondo chi scrive, entrambe le parti possono avere ragione, a patto che entrambe abbiano torto.
- DEL DOMANI NON V’È CERTEZZA
- BUON SANGUE NON MENTE
- INFETTI, QUESTI SCONOSCIUTI
- OPEN WORLD? NO, GRAZIE
- POCO DA DIRE, MOLTO DA VEDERE
- ABBAGLIO O CAPOLAVORO?
- MULTI…COSA?
- CHE FACCIO, LO RIGIOCO?
DEL DOMANI NON V’È CERTEZZA
Un futuro terribile, devastato da guerre nucleari o infestato da letali epidemie, è qualcosa cui il mondo dei videogiochi e della televisione ci hanno abituato ultimamente. The Last of Us si inserisce nel filone dei futuri alternativi, in particolare nella sottocategoria – vastissima – che comprende invasioni di zombie e mostri umanoidi simili. Mettete quindi insieme i vari The Walking Dead, Io Sono Leggenda, 28 Giorni Dopo, Metro 2033 e simili e vi sarete fatti una buona idea di quello che c’è sullo sfondo delle vicende narrate in The Last of Us. L’unica differenza consiste nel fatto che l’infezione, in The Last of Us, è causata da un fungo parassita, il Cordyceps (realmente esistente in natura, seppure innocuo per l’essere umano), le cui spore attaccano il sistema nervoso dell’ospite e proliferano nel cervello, trasformando il malcapitato in uno zombie de facto.
Sopravvivere nel mondo post-pandemia è dura. A 20 anni dal paziente zero, si stima che il 60% della popolazione mondiale sia deceduta o infetta. Gli esseri umani sopravvivono in zone protette, governati dagli scampoli di quelli che furono i governi, in veri e propri stati di polizia. Joel vive nei resti della zona di quarantena di Boston. È un contrabbandiere di mezza età. Uno temprato dagli eventi; cinico, violento. Sopravvissuto alla pandemia – non senza perdite – si è a fatica ritagliato un suo spazio nella nuova, cruda realtà. I suoi traffici lo fanno entrare in contatto con un gruppo paramilitare di ribelli che combatte lo stato di polizia e lotta per cercare una cura all’infezione. In un mondo come quello post-pandemico, ogni decisione può essere questione di vita o di morte, e bisogna decidere in fretta. La decisione di Joel è quella di fidarsi delle Luci – questo il nome del gruppo ribelle – e di contrabbandare oltre i confini della zona di quarantena un pacco speciale: la quattordicenne Ellie. Comincia così il viaggio che porterà Joel e Ellie ad attraversare insieme quel che resta degli Stati Uniti, imparando a conoscersi, guardandosi le spalle a vicenda da infetti e sciacalli, potendo contare solo l’uno sull’altro.
BUON SANGUE NON MENTE
L’impronta distintiva del team Naughty Dog, maturata dalla pluriennale esperienza nello sviluppo della saga Uncharted, è evidente. The Last of Us deve moltissimo al suo predecessore spirituale, a partire dalle meccaniche di gioco, per finire con il level design. Il gioco è principalmente un action/adventure con una forte componente stealth; considerarlo un survival horror è un errore di prospettiva. Come già visto in altri titoli, al giocatore è data la possibilità di decidere con che approccio affrontare le situazioni di pericolo. Si potrà quindi scegliere, nella maggioranza dei casi, se procedere con un basso profilo, cercando di eludere la minaccia o eliminarla silenziosamente, oppure se optare per lo scontro diretto, attirando l’attenzione su di sé. Le fasi stealth e quelle TPS restituiscono una immediata sensazione di déjà vu (come detto, l’impronta di Uncharted è evidente), il ché aiuta a familiarizzare con i comandi, i quali sono semplici e ben mappati. È presente anche un classico sistema di coperture libere, dietro cui nascondersi nelle fasi stealth e da cui fare fuoco in quelle TPS. Una maggiore attenzione è stata riservata alla cura del feedback delle armi da fuoco, le quali, soprattutto nelle prime sessioni di gioco, prive di potenziamenti, risultano difficili da gestire in situazioni sotto pressione (la mira automatica è attivabile dalle opzioni). La differenza principale fra Nathan Drake e Joel è che la sopravvivenza di quest’ultimo è legata ad una barra di salute, che và ripristinata mediante l’utilizzo di medikit.
Le armi a disposizione sono in buon numero, ma soprattutto varie, di modo che ogni differente arma abbia un proprio campo di applicazione privilegiato. Joel può avere a portata di mano (selezione tramite D-pad) da quattro fino a nove-dieci differenti armi, che comprendono pistole, fucili, bombe incendiarie ed esplosive, armi contundenti, fumogeni, coltelli e armi improvvisate (bottiglie, mattoni), senza dimenticare l’arco, arma stealth a distanza, e un lanciafiamme, incubo degli infetti. Alcuni degli oggetti più utili (per la precisione: coltelli, medikit e bombe varie), si trovano solo raramente in forma integra, sparsi per le mappe di gioco. In quest’ottica di scarsezza di risorse, il sistema di crafting assume cruciale importanza: partendo dalle risorse grezze che è possibile reperire nel devastato mondo post-pandemico e combinandole fra loro, Joel può assemblare degli oggetti rudimentali. Paradigma della precarietà di tali oggetti è la durata dei coltelli. I coltelli, difatti, sono irrinunciabili; possono salvare la vita nel corpo a corpo, possono aprire porte chiuse, possono uccidere silenziosamente. Eppure, tanto sono preziosi, quanto fragili. Considerando che sono assemblati partendo da lame di fortuna, ogni coltello ha una durata limitata in colpi, esauriti i quali il coltello si rompe. All’inizio, manco a dirlo, ogni coltello si rompe dopo appena un colpo. Un bel patema d’animo. Amministrare al meglio le risorse disponibili diventerà un tema ricorrente per i giocatori più cauti.
Fortunatamente, esiste un sistema di upgrade per oggetti e armi, gli uni mediante la lettura dei manuali di sopravvivenza (collezionabili da trovare), le altre perfezionabili in appositi banchi da lavoro, spendendo i rottami raccolti. Assumendo invece degli integratori (sparsi per gli scenari), sarà possibile potenziare alcuni parametri chiave di Joel, come salute massima, velocità di cura e altro. La difficoltà impostata influisce molto sulla disponibilità delle risorse, che a livello facile saranno distribuite in maniera abbondante, ma tendono a scarseggiare con l’aumentare della difficoltà. In particolare, le munizioni sono uno dei beni più preziosi: anche al massimo della capienza, Joel può trasportare un numero abbastanza risicato di munizioni per ogni tipo di arma. La regola è: mai sprecare un colpo.
INFETTI, QUESTI SCONOSCIUTI
La scelta su come affrontare una situazione dipenderà, oltre che dalle nostre scorte di oggetti e munizioni, anche dal tipo di minaccia che si dovrà fronteggiare. Joel ed Ellie dovranno infatti guardarsi le spalle non solo dagli infetti, ma anche e soprattutto dagli altri esseri umani, spietati predatori disposti a tutto pur di accaparrarsi scorte di qualunque tipo. Sui nemici umani c’è poco da dire: si comportano come normali umani. Vedono ciò che si trova nel proprio campo visivo e sentono i rumori; si spaventano se ci vedono sbucare dall’ombra e si allarmano se trovano un cadavere. Per gli infetti il discorso è diverso a seconda del grado di avanzamento dell’infezione. Nel primo stadio, gli infetti sono definiti Runner. Hanno ancora sembianze umane, possono correre e non ci vedono molto bene. Nel terzo stadio, che subentra dopo lungo tempo, il fungo è ormai cresciuto su buona parte di quella che era la testa dell’ospite. Questo tipo di infetto è chiamato Clicker, è cieco e caccia sfruttando un rudimentale sistema di ecolocazione. Senza svelarvi troppo, diremo soltanto che sono conosciuti e documentati altri due stadi dell’infezione, i cui risultati vengono chiamati rispettivamente Stalker e Bloater. Ogni tipologia di infetto segue delle proprie routine comportamentali e di attacco e spesso è anche possibile trovarli in uno stato di quiescenza apparentemente pacifica, salvo poi scatenarsi se disturbati. Le sessioni stealth più intense saranno quelle in cui ci si troverà a strisciare per corridoi bui, pietrificandosi alla vista di un Clicker, sperando che non avverta la nostra presenza mentre arranca a pochi centimetri da noi, emettendo versi a dir poco disturbanti. Per facilitare tale scomodo compito, in The Last of Us non manca una trovata che permette di farsi un’idea della posizione dei nemici, anche senza vederli. Si tratta dell’udito di Joel, il quale, acquattandosi e tendendo l’orecchio (entrando in modalità ascolto), riesce a rivelare la posizione e i movimenti delle minacce e degli alleati nelle dirette vicinanze.
I nostri compagni di viaggio (Ellie in primis, ma si incontreranno anche altri personaggi), dal canto loro, si omologheranno al nostro modo di fare. In linea generale, rimarranno nascosti finché non si entra in scontro aperto, momento a partire dal quale inizieranno a rendersi utili come possono, distraendo i nemici, attaccandoli e coprendo le spalle a Joel, per poi seguirlo in caso di fuga precipitosa. Inutile sottolineare come sia necessario tenere sempre sotto controllo Ellie, per impedire che venga uccisa durante gli scontri. L’intelligenza artificiale, generalmente buona, porterà i nemici a comportarsi secondo schemi prevedibili, ma verosimili. Gli umani sfrutteranno tattiche classiche come attacco frontale, accerchiamento, aggiramento e attesa. Gli infetti saranno invece portati a reagire come bestie e, una volta allarmati, si scaglieranno con furia e in massa contro Joel ed Ellie.
OPEN WORLD? NO, GRAZIE
Come anticipato, la struttura dei livelli di The Last of Us ricalca il modello lineare già visto nei vari Uncharted. Più precisamente, il gioco è suddiviso in macroscenari introdotti da cutscene, per poi essere ulteriormente suddiviso in scene, che si susseguono in sessioni stealth, TPS, esplorative e narrative. L’esperienza è estremamente guidata, ma la sensazione di correre su binari prestabiliti, sebbene inevitabilmente ingombrante, passa in secondo piano se si riesce ad apprezzare la ricchezza di dettagli che caratterizza ogni ambientazione. Gli scenari, per quanto lineari, prestano il fianco alla curiosità del giocatore, libero di esplorare ogni scena alla ricerca di scorte, collezionabili e frammenti di informazioni che sollevano il velo sulla realtà e la quotidianità del mondo post-pandemia. La scelta di un’esperienza di gioco sui binari risulta calzante per The Last of Us anche dal punto di vista dell’impostazione cinematografica, esaltata dai tanti cutscene che scandiscono l’avanzare di scenario in scenario. A mantenere costante il flusso della narrazione, contribuiscono anche i frequenti dialoghi che Ellie e Joel intrattengono e che fanno spesso da sottofondo alle fasi esplorative.
POCO DA DIRE, MOLTO DA VEDERE
Ormai ad un passo dal lancio della prossima generazione di console, la PS3 sta dando il meglio di sé proprio nel momento in cui i più avrebbero potuto pensare che fosse destinata ad un rapido declino. Con The Last of Us, Naughty Dog stabilisce un nuovo standard in quanto ad eccellenza grafica su console, avvicinandosi sempre più al fotorealismo. Certo, la mancanza del full HD si sente sempre, ma l’intero comparto grafico raggiunge lo stato dell’arte in un tutt’uno sempre coeso e composto. Ogni elemento è al posto giusto, e tutto – modelli poligonali, texture, animazioni, effetti particellari, illuminazione dinamica – tutto contribuisce in maniera egregia a comporre il magnifico puzzle che rappresenta ogni inquadratura di The Last of Us. La bellezza degli scorci, il dettaglio degli interni, la ricchezza di particolari non potranno non lasciare a bocca aperta.
L’espressività dei volti dei protagonisti, animati da performance capture, colpisce come se la maschera digitale non esistesse, e la sensazione di osservare veri attori in scena aumenta il livello di coinvolgimento. La gamma di emozioni che questi volti digitali sono in grado di esprimere non ha nulla da invidiare ad un attore in carne e ossa; in particolare, le espressioni di rabbia e furia di Joel sono incredibilmente realistiche e inquietanti. Un plauso va di diritto ad Ashley Johnson e Troy Baker (quest’ultimo habitué della recitazione nei videogame: interpreterà anche Revolver Ocelot in MGS V), i quali hanno dato vita rispettivamente ad Ellie e Joel. Di ottimo livello anche il doppiaggio in italiano, in grado di restituire il carattere originario delle voci di Joel ed Ellie.
La colonna sonora di The Last of Us è curata interamente da Gustavo Santaolalla, due volte vincitore del premio Oscar per la migliore colonna sonora (2006, I Segreti di Brockback Mountain; 2007, Babel). Ottime referenze, che dite? Scendendo più nel dettaglio, l’intero score è caratterizzato dal ruolo preminente della chitarra arpeggiata su accordi prevalentemente minori, accompagnata spesso da archi in sottofondo. La chitarra e gli archi creano un’atmosfera intima ma drammatica, mentre le fasi più concitate sono sottolineate da percussioni e ritmi. Descrivere a parole l’impatto che riesce ad avere la colonna sonora di The Last of Us, è quasi impossibile. Le note e i motivi sembrano essere scritti nel paesaggio. La musica è nell’aria. Come il canto degli uccelli, è un qualcosa che è lì dove ci si aspetterebbe. Intensa e toccante, la colonna sonora di The Last of Us è una vera perla del genere.
ABBAGLIO O CAPOLAVORO?
È tutto qua, allora? The Last of Us è questo: un action/adventure story-driven dal taglio fortemente cinematografico? Abbiamo un gameplay frutto di una commistione di generi – tutto già visto e già fatto; una trama che non si può certo definire originale, per non dire banale; il tutto condito qua e là da qualche inquadratura ispirata e da un comparto tecnico d’eccellenza. No, non è tutto qua. C’è qualcos’altro, in The Last of Us, qualcosa che può colpire, e toccare, a un livello più profondo. È un qualcosa che non tutti i giocatori riusciranno ad afferrare, ma non si può fargliene una colpa. The Last of Us cerca di sfumare i contorni fra il videogioco e l’opera cinematografica. Non è il primo titolo che tenta di farlo, ma è certamente quello che fino ad ora ci è riuscito meglio, ed è qualcosa che non si può imporre come “bello”, ma che può solo piacere o non piacere, come può piacere o non piacere un film. The Last of Us, però, tenta di sfondare anche una ulteriore barriera: quella che impedisce al giocatore di sentirsi realmente coinvolto. Lo fa in maniera atipica, eppure estremamente efficace. Il punto forte non è la narrazione, ma il suo esatto opposto. Il coinvolgimento non è determinato da una trama mozzafiato e ricca di colpi di scena (è tutto scritto fin dalla prima scena), ma è indotto da ogni dettaglio, ogni dialogo casuale, ogni espressione dei personaggi, ogni scenario esplorato, ogni frammento di diario letto. Ciò che consolida il rapporto che lega il giocatore a Joel ed Ellie, ciò che lo rende realmente partecipe della loro vicenda, sono i silenzi e le atmosfere. La stessa colonna sonora è fatta principalmente di silenzi, di suoni di sottofondo. Di atmosfere, appunto. E quando interviene vera e propria musica, lo fa con delicatezza, per sottolineare ed intensificare le sensazioni trasmesse dagli scenari e dalle singole scene. Se il giocatore riuscirà a calarsi nella vicenda; a camminare, anziché correre, per godersi l’ampio respiro degli scenari; ad osservare i dettagli, per carpire ogni informazione, manifesta o nascosta; a percepire, anche tramite le cose non dette, il legame fra Joel ed Ellie che si rafforza – se il giocatore riuscirà a fare tutto ciò, l’esperienza che trarrà da The Last of Us sarà ben più intima e intensa di quanto non ci si aspetterebbe.
MULTI…COSA?
No, non è un caso se abbiamo deciso di parlare del comparto multiplayer solo in chiusura di recensione. Il motivo sta nel fatto che la modalità multiplayer, in un gioco come questo, caratterizzato in maniera decisa dal taglio cinematografico e dal coinvolgimento emotivo del giocatore, può sembrare fuori posto. Le meccaniche di gioco di The Last of Us, tuttavia, ben si prestano ad essere reinterpretate in una modalità multiplayer, e il team di sviluppo che se ne è occupato (esterno a Naughty Dog) ha fatto tutto sommato un buon lavoro, proponendo la modalità Fazioni. Giocando a Fazioni, si dovrà innanzitutto scegliere da che parte schierarsi: Luci o Cacciatori. Questa scelta non influisce in alcun modo sul gioco online, se non nella composizione delle squadre. Ogni giocatore impersona il leader di un piccolo gruppo di sopravvissuti, di cui si dovrà prendere cura procurandosi razioni, medicinali e quant’altro, per 12 settimane. Ogni partita rappresenta una giornata di queste 12 settimane (7×12 = 84 partite totali), e per ogni giornata è stabilita una quota minima di scorte da reperire per tenere vivi e in salute i membri del proprio gruppo. A seconda delle scorte che si riescono a recuperare, il gruppo può aumentare o diminuire di numero ed è anche possibile, disponendo di una condivisione social con Facebook, reclutare i membri del gruppo fra i propri contatti (senza nessuna conseguenza pratica rilevante). È inoltre possibile imbattersi in eventi casuali che influiscono sul numero dei sopravvissuti e portare a termine semplici obiettivi secondari durante le sessioni di gioco.
Il multiplayer vero e proprio si concretizza in tre modalità differenti. Nella prima, Caccia Ai Rifornimenti, ci si scontra 4 vs 4 in mappe di gioco derivate da location visitate durante il gioco, in un team deathmatch più o meno classico, con respawn limitati. La seconda, Sopravvissuti, è giocata senza respawn, al meglio dei 7 round. La terza, infine, chiamata Interrogatorio, prevede che si interroghino gli avversari morenti al fine di farsi rivelare la posizione di una cassetta di sicurezza. Una volta interrogati 5 avversari, la posizione viene svelata e la squadra in difficoltà deve tentare di difenderla. Ognuna di queste modalità mantiene inalterato il sistema di crafting proprio del single player, che, anzi, gioca un ruolo chiave anche nel multiplayer. Non mancano perk e abilità, sbloccabili accumulando scorte o raggiungendo obiettivi, utili a potenziare il personaggio in differenti modi.
CHA FACCIO, LO RIGIOCO?
Che possa piacere o meno, non è certo il multiplayer il pezzo forte di The Last of Us. Tuttavia, non si può che apprezzare lo sforzo profuso da Naughty Dog per proporre un prodotto completo anche in questo senso, ben consci che il solo single player vale da solo tutto il prezzo del biglietto. In termini di longevità, The Last of Us può vantare una durata di tutto rispetto per l’avventura principale. Gli sviluppatori parlarono, prima che il gioco fosse rilasciato, di una forbice che va dalle 12 alle 16 ore, a seconda dello stile di gioco e di quanto tempo si spende ad esplorare. Una durata più verosimile va dalle 14 fino alle 20 ore. Nel caso il gioco sia piaciuto, la rigiocabilità è assicurata dal desiderio di tornare a visitare i luoghi e di immergersi nuovamente nelle atmosfere che sa ricreare. Cosa che – a quanto pare – sapevano bene gli sviluppatori, quando hanno deciso di inserire la modalità plus, sbloccabile completando il gioco con qualsiasi difficoltà, che permette di rigiocare The Last of Us conservando tutti gli upgrade e i miglioramenti ottenute da Joel fino alla sequenza finale, rendendo di fatto il gioco più semplice.